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  -  Eventi   -  Paolo Peruzzi ci racconta la sua esperienza al Berklee College of Music di Boston.
"A me piace molto comporre nel vero senso della parola: prendere più cose e metterle insieme ordinatamente. È un modo per dare ordine alle mie idee."
Paolo Peruzzi, Vibrafonista

La nostra Ester Ferro, del team comunicazione di Maecenates, ha incontrato virtualmente il vibrafonista Paolo Peruzzi, uno dei talenti di Maecenates che sta attualmente frequentando in America un percorso di studi quadriennale presso il Berklee College of Music di Boston.


La prima cosa che vorrei chiederti è sicuramente che cosa ti abbia portato ad avvicinarti ad uno strumento così particolare come il vibrafono, sicuramente molto impiegato nella musica jazz, e non solo, ma comunque non particolarmente conosciuto. È una passione ereditata?

Io nasco come batterista, in realtà ancora prima come percussionista. Il vibrafono in Italia si studia in conservatorio quando si fa il classico percorso delle percussioni, così ho scoperto l’esistenza del vibrafono quando ho dovuto studiarlo. Avendo sempre amato il jazz questo strumento mi ha incuriosito particolarmente, perché dà grande importanza all’armonia e alla melodia, che invece non si trovano nella batteria. Ormai sono concentrato soprattutto sul vibrafono da 6 anni, però amo studiare tutti gli strumenti.

Pensi che la scelta del tuo strumento ti abbia reso la carriera più difficile o giochi a tuo favore? Magari per il fatto che è più raro trovare un bravo vibrafonista che un bravo pianista, ad esempio?

Potrebbe essere un limite nel senso che a differenza di un chitarrista di cui c’è sempre bisogno, un vibrafonista non è sempre richiesto. Però non credo che suonare uno strumento o un altro sia un limite. Ci sono musicisti bravissimi che suonano strumenti stranissimi. Sicuramente c’è da dire che un vibrafono è uno strumento più di nicchia! Ad esempio al Berklee siamo 5000 studenti, ma solo 15 vibrafonisti. In realtà questo a lezione aiuta a creare un clima familiare, più intimo. 


Adesso ti trovi a Boston, al Berklee College of Music. Hai notato un approccio diverso nello studio della musica negli USA rispetto all’Italia?

È completamente un altro mondo: a partire dalla cultura e la società che sono ovviamente totalmente diverse. Il jazz non sarebbe potuto nascere in un posto diverso da questo.

L’approccio che hanno anche nelle relazione interpersonali, ad esempio, è diverso: qui si sentono in diritto di dire una cosa e poi spiegarla, mentre in Europa dobbiamo prima spiegare e poi siamo liberi di poterci esprimere. Qui è tutto incentrato sull’espressione dell’individuo, infatti ogni lezione è concentrata su ciò che puoi fare tu: a lezione scelgo io cosa studiare, non mi danno limiti, al contrario dell’Italia (nonostante i miei maestri siano stati bravissimi e nei limiti molto permissivi).

Ad esempio negli USA armonia è una discussione: siamo qui per capire insieme cos’è la musica.


Il professore non ci dice cosa sia giusto e cosa sbagliato: ti permette di metterti in gioco.


A tal proposito, per la continuazione della tua carriera, ti senti più accolto\ senti di avere una futuro migliore negli USA? O ti piacerebbe tornare in Italia?

Sicuramente c’è molta più offerta dal punto di vista lavorativo nel mio campo. Qui la gente vuole che gli altri abbiano qualcosa da dire: ci si aspetta che il musicista porti qualcosa di nuovo. Se potessi scegliere, mi piacerebbe vivere in nord Europa: prima di vincere la borsa di studio del Berklee avevo in progetto di andare a Berlino.

Di tutta la tua carriera, c’è un evento\traguardo a cui sei più legato?

Ricordo soprattutto le sgridate quando studiavo in Italia, però le ricordo con piacere: da lì capivo che avevo sbagliato e non lo facevo più. Qui non si permetterebbero di dirti niente. Grazie al metodo italiano ho imparato a non presentarmi mai a lezione senza conoscere la musica, ad essere preparato.  Noto infatti che gli studenti statunitensi hanno un modo di approcciarsi completamente diverso: la totale libertà è quasi spiazzante. Il connubio perfetto sarebbe il sistema europeo trasferito in America, dove si ha completa libertà di espressione.


Ho visto che sei anche un compositore. Da dove trai ispirazione per i tuoi pezzi? Li definiresti descrittivi o più astratti?
Secondo me questo dipende tutto dalla persona che ascolta: alcune persone ad esempio nella musica vedono un colore o un luogo specifico anche se io componendo il brano pensavo a tutt’altro. La composizione mi diverte tantissimo, è meraviglioso. Per me è continua ricerca: c’è sempre un obiettivo sotto. Lascio la libertà a chiunque di vedere ciò che vuole nei miei brani. Io semplicemente provo, suono, e poi studio ciò che ho suonato: mi registro quando studio (per capire come migliorare) e ogni tanto suonando sento dei motivi interessanti: li scrivo e da lì inizio a giocare.

A me piace molto comporre nel vero senso della parola: prendere più cose e metterle insieme ordinatamente. È un modo per dare ordine alle mie idee.

C’è un artista in particolare che ti ha fatto decidere di diventare musicista?

I miei maestri sono stati una grande ispirazione: per un periodo sono state le persone che vedevo più spesso, anche più dei miei genitori. Con uno di loro ho  mantenuto un bellissimo rapporto: ci sentiamo ancora per raccontarci i progetti e i brani a cui stiamo lavorando.

Sicuramente tutti i miei maestri sono stati e sono un punto di riferimento, di arrivo: sono dei bravissimi musicisti! Inoltre, un paio di musicisti sono stati una grande ispirazione: uno di loro è morto un paio di anni fa, era un insegnate qui al Berklee, infatti è uno dei motivi per cui mi trovo qui: Dave Samuels che suonava con David Friedman ( che si trova a Berlino, è uno dei motivi per cui volevo andarci). Entrambi suonano vibrafono e marimba, come vorrei fare io. Uno dei miei insegnanti attuali era un caro amico di Dave Samuels anche se suonano in modo molto diverso, cosa che mi ha sorpreso. I miei insegnati, infatti, sono molto affascinanti dallo strumento in sé: amano studiare e conoscere questo strumento ancora così giovane: ha compiuto 100 anni giusto qualche settimana fa. Dave Samuels lavorava più sulla musica, i miei insegnanti più sullo strumento in sé, cosa che non mi aspettavo.

Preferisci suonare da solo o collaborare? C’è una collaborazione che sogni particolarmente?

Ora sto collaborando con un musicista iraniano che suona il liuto arabo, non credo questa accoppiata si sia già sentita ma mi sta piacendo molto. Le musiche del Medio Oriente sono magiche, completamente diverse: tanta melodia, poca armonia, pochi accordi ma melodie bellissime, che ti trasportano. Il liuto arabo si sposa bene col vibrafono perché ha un suono molto caldo.



C’è un posto in cui sogni di esibirti prima o poi?

Mi piacerebbe molto il Teatro Romano di Verona. Un’altra ciocca è l’Anfiteatro del Venda, sui Colli Euganei. È di un privato, è un posto molto bello, magico. Il jazz richiede un ambiente intimo, quindi questo posto sarebbe davvero perfetto.

Classica domanda da fine intervista, sogni\progetti per il futuro?

Per un po’ sicuramente mi piacerebbe tornare in Italia, dalla mia famiglia. Mi piacerebbe insegnare in qualche scuola e nel frattempo continuare a scrivere.

Non ho una meta ben precisa in testa, mi basta fare ciò che amo, non mi precludo possibilità.  In Italia non c’è un corso specifico per il vibrafono: è uno dei grossi problemi dell’Europa (c’è qualcosa a Berlino e a Londra ma poco altro). Io addirittura penso di essere stato il primo ad essere riuscito a fare il trienno sul vibrafono in Italia: con qualche escamotage siamo riusciti a focalizzare il corso sul vibrafono.




Scopri di più su Paolo

Paolo è ora alla fine del suo primo anno di quattro al Berklee College of Music. Ha ottenuto una borsa di studio di 25.000 dollari all’anno. La retta resta tuttavia impegnativa per la famiglia. Maecenates accoglie donazioni e crea percorsi con aziende sensibili allo spirito di mecenatismo per supportare gli studi di giovani talenti italiani. Per maggiori informazioni, visita la pagina di Paolo. La sua campagna di ricerca mecenati è in corso.

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